Cultura leggera, Feuilleton

Con le tartarughe si fanno i pettini -17 di Clementina Coppini

Avrei voluto ridurre a un pettine quella maledetta maestra, ma non potevo. Per questioni contingenti tipo le dimensioni ridotte di un bambino ma anche per la ragione profonda che lei mi rispettava, come ho già detto. Rispettava le mie capacità ma non la mano con cui le esprimevo. C’è sempre qualcosa che non va, alla fine. Lei aveva i capelli rossi. I capelli del diavolo, ma lei non se li era tinti di nero o di biondo, mentre pretendeva che io non usassi più quella che chiamava la mano del diavolo. Di certo quella strega lo conosceva bene.

Mia nonna non era una strega ma era d’accordo con lei. Me lo aveva insegnato lei, che la sinistra è la mano del diavolo, e tutte le volte che la usavo mi mollava un ceffone. Così sono diventato destro. Un dono di Dio non può usare la mano di Belzebù. Anche mia nonna mi rispettava. Il rispetto è molto utile, quando uno sa cosa farsene, quando si è intelligenti come me.

Pensavo a queste cose durante la funzione funebre. Perché uno deve dannarsi in vita per vivere quaggiù in un certo modo diritto e consequenziale, quando la morte è un tempo infinito e curvo? Odiavo quella ridondante cerimonia lacrimosa. Mi piacciono solo i pianti di commozione, che hanno un valido motivo. Forse ogni tanto sono tollerabili quelli di gioia. Ma il dolore umidiccio non fa per me. Preferisco il dolore disidratato.

Sotto la pesante cappa dell’incenso pensavo alla mia infanzia molto breve e a come per assurdo non passasse mai. Ricordavo mio padre che mi massacrava con gusto, ricordavo il disprezzo. Mi svegliava in piena notte per urlarmi che non valevo niente e che niente di buono avrei combinato nella vita. Pensavo alle botte e sentivo dalla bara provenire l’eco di uno schiaffo. Lui mi picchiava in modo diverso da mia nonna, con un altro intento. Mia nonna mi picchiava per educare, per risvegliare in me il combattente, lui mi batteva per abbattermi. Ricordai gli anni di lavoro a più non posso, di studio a più non posso. Ho iniziato la mia carriera letteraria a nove anni facendo la lista delle cose che mancavano dagli scaffali e togliendo la ruggine dalle scatolette del tonno sott’olio. Mentre passavo le ore in quelle attività imposte dall’uomo nel feretro iniziai a sviluppare le prime idee e la carta per il prosciutto divenne la mia palestra di scrittura. Era azzurro chiaro, con delle righe in trasparenza che disegnavano delle piccole onde. Quando, quindici anni più tardi, ebbi tra le mani il primo computer impostai lo sfondo blu nella pagina di word. Ho passato tutta la vita a scrivere sulla carta del prosciutto.

 

Segue…

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