Cultura leggera, Feuilleton

Con le tartarughe si fanno i pettini -5 di Clementina Coppini

Mi chiamo Teodoro, dicevo. E ho odiato la mia vita, dal principio in avanti. Ho studiato tanto, finché non mi sono sentito pronto. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio sistemavo gli scaffali in quel pulcioso negozio con quella pulciosa cantina piena di ratti. Ce n’era uno che non faceva schifo come gli altri, Ciro. Era piccolo come me e ci facevamo in qualche modo compagnia, evitandoci per la maggior parte del tempo ma tenendoci reciprocamente sotto controllo. Non eravamo amici, ci rispettavamo.
La sera leggevo, ma non le cose che leggono i bambini, quegli sciocchi libri da dimenticare subito. Leggevo libri da ricordare, che mi insegnassero qualcosa. Mia madre era morta giovane, troppo giovane, una notte di fine inverno, negli ultimi giorni di un bruttissimo inverno. Dopo una giornata di pesante lavoro in un negozio freddo, dopo una breve vita di lunga fatica spesa con la generosità del suo cuore grande e del suo spirito fragile, confortato da troppo alcol. Quell’inverno le si era formata una piaga orrenda sul piede destro. Non riusciva più a schiacciare la frizione, così andava al negozio a piedi, trascinando una ciabatta fasciata nella neve. Non me lo posso dimenticare, così come non posso cacciare il ciao con la mano che mi fece dal letto di morte, che era il suo letto e che era destinato a essere la sua morte, per via dell’uomo che aveva al suo fianco, mio padre. Mia madre era morta e mio padre mi picchiava. Aveva raddoppiato la dose dopo la morte di lei, come avevo già previsto. Lui non beveva, non urlava, teneva la casa pulita come uno specchio, o meglio voleva che io la tenessi così. Mi picchiava per sport, come allenamento, credo. Mi diceva che non valevo niente, che non avrei combinato nulla di buono e lo faceva con tono calmo, placido, convinto promotore del mio fallimento. Mi corre ancora un brivido nel ricordare, anzi ho un brivido perenne nel midollo spinale, tatuato da ciò che ho visto.
Continuai gli studi, tra il negozio e le botte, senza altro tempo che quello per guardare qualche film e diplomandomi con onore. Onore, la mia parola preferita, insieme a gloria. Il giorno del diploma presi un aereo e andai negli Stati Uniti. Avevo risparmiato per anni, dando ripetizioni a quegli stupidi asini che i genitori spingono avanti nella vita a tutti i costi. Gente nata pettine che viveva e avrebbe vissuto come tartaruga, per cui provavo, mal nascosta dietro il disprezzo, un’amara invidia. Amara e grande. Mio padre non si oppose, si limitò a insultarmi, perché lo chiamai dall’aeroporto. Ormai non mi picchiava più da un po’. Ero un cane arrabbiato, avevo imparato a mordere prima di abbaiare

 

 

Segue…

 

 

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