Cultura leggera, Feuilleton

Con le tartarughe si fanno i pettini -7 di Clementina Coppini

Diana dall’aria diafana che ogni tanto ricambiava i miei sguardi per una frazione di attimo e poi abbassava gli occhi. Erano blu. Non azzurri, proprio blu. Intensi, profondi. Non mi ricordo di essermi mai chiesto se Diana avesse un’anima profonda. L’anima era un dettaglio, gli occhi blu erano più importanti. Mi chiedevo se spiasse me volutamente o se fissasse un punto indistinto che si intersecava per caso con il mio sguardo. Niente di strano, giacché c’è tanta gente che imposta in questo modo le sue relazioni con il mondo. Mi chiedevo da chi avesse ereditato quegli occhi.
Mi facevo queste domande fondamentali e fingevo senza costrutto di studiare, nel frattempo illudendomi di provare per quella femmina un trasporto umano proporzionale alla sua bellezza. E ci riuscivo abbastanza bene. Pensavo a come avvicinarmi, a come impostare l’approccio, ma non trovavo né il modo né il coraggio. A volte, per non sembrare troppo insistente e molesto, alzavo lo sguardo e fingevo di leggere i titoli dei libri sullo scaffale dietro di lei. Lei e i libri erano diventati un tutt’uno, nelle mie fasulle meditazioni.
Un bel pomeriggio mi alzo e mi avvicino. Lei non si scompone troppo, abituata com’è al tenue corteggiamento da biblioteca, e abbozza un sorriso. Chissà, magari le piaccio. Alzo gli occhi per cercare di superare l’emozione di un così seducente sospetto e in un istante capisco che non sono lì solo per lei. Non so se in qualche modo l’avevo già visto o se il destino aveva voluto mostrarmi la mia strada in un modo inaspettato, fatto sta che dietro Diana c’era un libro con la copertina blu come i suoi occhi. Illuminato come da un’illuminazione (ma guarda un po’), mi distraggo per un attimo dalla nascente passione per la mia divinità della caccia e prendo un libro dallo scaffale.
Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Quel libro ha significato la svolta.
Il destino aveva appoggiato dietro a Diana questo libro di poesie in cui mi ero già imbattuto prima. Lui o chi per esso. Gli ultimi versi di una delle poesie di quel volume erano il titolo di un tema che avevo svolto in seconda superiore. Mi ricordavo bene le parole e mi ricordavo bene il voto, dal sette all’otto. Dal sette all’otto è la benedizione della mediocrità, e io ho sempre detestato la sola idea di essere mediocre. Quel voto mi bruciava ancora, a distanza di anni. Uno sfregio all’orgoglio. La poesia era sul senso della vita. Un argomento secondario, insomma.

 

Segue…

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